Apriamo la nuova rubrica “Cultura” con un bellissimo articolo del Corriere della Sera che pubblicizza un interessante libro sull’evoluzione della società dallo sferragliare degli zoccoli dei cavalli alla pazzia odierna.
Sopravvivrebbe Marcel Proust al baccano dei cellulari, della tivù, della radio, dei clacson, delle sirene? Mah… Per attutire il chiasso che saliva dalla strada di allora, l’autore de La recherche aveva fatto tappezzare di sughero una camera di casa. Eppure, pare, gli sembrava tutto ancora fastidioso.
Quella Parigi a cavallo tra Ottocento e Novecento, in realtà, per quanto possiamo immaginarcela quieta rispetto alle metropoli d’oggi, non doveva esser poi così silenziosa. Ce lo dice un reportage del 1879 di Edmondo De Amicis: «Non c’è un momento di riposo, né per l’orecchio, né per l’occhio (…) Le carrozze passano a sei di fronte, a cinquanta di fila, a grandi gruppi, a masse fitte e serrate
che si sparpagliano qua e là verso le vie laterali, e par che escano le une dalle altre, come razzi, levando un rumore cupo e monotono, come d’un solo enorme treno di strada ferrata che passi senza fine. Allora tutta la vita gaia di Parigi si riversa là da tutte le strade vicine, dalle gallerie, dalle piazze; arrivano e si scaricano i cento omnibus del Trocadero; le carrozze e la folla a piedi che viene dagli scali della Senna; flutti di gente che attraversa la strada di corsa arrischiando le ossa…».
La stessa Milano, ai contemporanei, doveva sembrare caotica. Al punto che nel 1901, per rispetto di Verdi agonizzante al Grand Hotel, viene proibito ai conduttori di tram che passano di suonare il clacson davanti all’albergo. «Quasi a voler risparmiare al grande genio morente, nato e vissuto nei silenzi dell’Ottocento, il fragore di una nuova epoca che si apre».
Lo racconta Stefano Pivato nel libro Il secolo del rumore – Il paesaggio sonoro nel Novecento (il Mulino, pagine 192, €14). Rettore a Urbino, dove insegna storia contemporanea, Pivato non è nuovo a libri dal taglio «eccentrico». Basti ricordare Vuoti di memoria. Usi e abusi della storia nella vita pubblica italiana. O La bicicletta e il sol dell’Avvenire. Tempo libero e sport nel socialismo della Belle Epoque. O ancora Il nome e la storia. Onomastica e religioni politiche nell’Italia contemporanea e I terzini della borghesia – Il gioco del pallone nell’Italia dell’Ottocento. Libri seri, arricchiti da un gusto raro per l’aneddotica, il dettaglio, la curiosità.
«Se fossimo trasportati un secolo addietro attraverso la macchina del tempo di "Ritorno al futuro" », scrive Pivato, «saremmo probabilmente assordati dal silenzio». Mica per altro l’idea del libro gli è venuta da un cd assai particolare: «Un gadget richiestissimo da un gruppo di fan della Ferrari. Si trattava di una ventina di brani che riproducevano i suoni (così venivano definiti) dei più gloriosi modelli della "rossa" di Maranello. Rimasi allibito di fronte al fatto che si potesse ascoltare il rombo di un motore—tentando di indovinarne modello, numero di giri, potenza e anno del debutto—con lo stesso religioso silenzio col quale si ascolta un brano di Mozart».
Rileggere la descrizione di Vasco Pratolini di una casa borghese d’un tempo, tocca il cuore: «Vi si spengeva lo stridere delle cicale, l’eco dei passi, il ronzio dei mosconi. Istintivamente camminavo in punta di piedi. (…) Di vivo v’era soltanto il tic-tac dell’orologio a muro che invece di rompere sottolineava il silenzio». Per secoli e secoli, spiega Pivato, la vita dell’uomo si è svolta in silenzio. La stessa pittura, si sarebbe lamentato il futurista Carlo Carrà, era stata «l’arte del silenzio. I pittori dell’antichità, del Rinascimento, del Seicento e del Settecento non intuirono mai la possibilità di rendere pittoricamente i suoni, i rumori e gli odori…».
L’assenza di rumore era rotta soltanto dal clangore delle battaglie allo scoppio delle guerre. Dal ritmo di certe botteghe artigiane come quelle dei calderai descritti nel 1700 da Bernardino Ramazzini: «Essi per tutto il giorno si dedicano a martellare il rame per ottenerne la duttilità (…) e quindi di lì si leva un frastuono smisurato, tanto che solo gli operai vi possiedono botteghe e dimore, poiché tutti evitano quel luogo così molesto». Dalle urla dei tifosi del gioco del pallone, da non confondersi col calcio, descritti da Wolfgang Goethe. Dagli strepiti dei tiratardi come quelli che a Firenze impedivano di dormire a John Ruskin, perseguitato dal «frangersi perpetuo di fragori mostruosi e disumani, urla e schiamazzi di esseri osceni fino a notte fonda». Per non dire dei «rimbombi di campane al mattino che si scontrano in impietose dissonanze da un campanile all’altro… ».
Non era l’unico, lo scrittore inglese, a lagnarsene. Anzi, ricorda Pivato, «la "guerra delle campane" ha costituito, almeno fino agli anni Cinquanta del Novecento, una delle più accese diatribe tra il fronte clericale e quello anticlericale». Ricordate il contro-campanile voluto da Peppone per vendicarsi di tutte le volte che don Camillo aveva disturbato i suoi comizi? «Finirà il monopolio campanario clericale!». Non occorreva essere anticlericali come i rivoluzionari francesi o i bolscevichi (che arrivarono a proibire gli scampanii perché lasciassero il posto «al rumore delle fabbriche e ai fischi delle industrie») per trovare insopportabili certe esagerazioni.
Lo dicono certi ricorsi al giudice d’epoca giolittiana dove si lamentavano «864 colpi nelle 24 ore, annunciando l’ora, ogni quarto d’ora con un tocco di preavviso». Un baccano infernale, per chi viveva vicino al campanile. Come Giovanni Pascoli che dopo aver esordito cantando «i cari suoni delle campane » si avvelenò il sangue per l’abuso di «ondataccie» sonore che ne faceva il parroco di Barga e non ebbe pace finché non ottenne dal vescovo il trasferimento del prete spaccatimpani.
La svolta vera, però, ovvio, fu l’irruzione del motore. Prima delle locomotive (che venivano battezzate «Lampo», «Scintilla», «Fulmine», «Procella»), poi delle automobili esaltate da Tommaso Marinetti per quei «grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo » e degli aerei cantati in «Uccidiamo il chiaro di luna»: «Avanti, pazzi, pazze, leoni, tigri, e pantere! Avanti, squadroni di flutti!».
E basta coi violini e i mandolini e le vecchie melodie musicali, invocava Luigi Russolo. Meglio un’orchestra di «intonarumori», un macchinario che riproduceva i suoni industriali: scoppiatori, stropicciatori, rombatori, sibilatori… La «prima» al Teatro Dal Verme di Milano, nel 1914, finì in una rissa. Di qua gli amanti della buona musica, di là i futuristi di Marinetti, Boccioni e Carrà. La cronaca del «Corriere», in ironico stile futurista senza articoli, fu una delizia: «Pugni. Carabinieri, delegati, poltrone sulla testa, urli, insolenze. Pubblico in piedi. Concerto continua. Pugni anche. Futuristi tratti palcoscenico dai carabinieri. (…) Urli, invettive, pugni. Piazza Cordusio altri pugni. Galleria nuovi pugni…».
fonte: corriere.it 4/04/2011