Avv. Marco Giustiniani allo Smart Mobility World 2015

taxitam.it SMARTMOBILITYWORLD – 2015 WORLD EDITION TAXI TECH FORUM (I Edizione) 29 ottobre 2015 – Autodromo Nazionale di Monza
LEGISLAZIONE E MERCATO: CHI ARRIVA PRIMA NELL’EPOCA DELLA SHARING ECONONOMY? LO STRANO CASO DEL TPL NON DI LINEA di Marco Giustiniani

Giustiniani_Marco-258x258Saluti e ringraziamenti.
In occasione della Prima Edizione del Taxi Tech Forum ospitato dallo SmartMobilityWorld (2015 World Edition) mi è stato assegnato il compito – legandomi all’introduzione fatta dal Consigliere Grassi del Comune di Milano – di inquadrare i temi che a breve saranno oggetto di dibattito nelle due tavole rotonde in programma nella giornata di oggi e porre, in modo correlato, una serie di quesiti a cui dare risposte.

Si parla, dunque, di trasporto pubblico non di linea (c.d. TPL non di linea): ossia di taxi e noleggio con conducente. Ma la verità è che parlare di TPL non di linea oggi (nel 2015) non è una cosa semplice; e anzi è facile rischiare di sconfinare nel non politicamente corretto.
In effetti, siamo di fronte a quello che possiamo definire come uno strano caso. 

Sono diversi anni che Governo e Parlamento sembrano considerare il settore taxi-NCC come una chiave di volta di quelle che (forse troppo) genericamente vengono definite liberalizzazioni. Del resto è storiografia legislativa recente che almeno dal 2011 al 2013 (in particolare, negli ultimi mesi del Governo Berlusconi e, poi, nel successivo Governo Monti) ogni intervento governativo urgente sui mercati (intervento solo annunciato oppure posto effettivamente in essere) sia transitato attraverso tentativi (poi sostanzialmente sfumati) di modifica, diretta o indiretta, della legge quadro di settore n. 21/1992.

Pur avendo una preparazione e una impostazione giuridica e non un background da economista, mi sento tranquillo nell’affermare che il mercato del TPL non di linea non possa avere un impatto così sostanziale sull’Economia-Paese da necessitare di un intervento da includersi in forme di decretazione d’urgenza (quale appunto è lo strumento del decreto legge più volte utilizzato allo scopo).

Quindi – e qui sorge la prima domanda – dove può essere ricercata la ragione di questa urgenza di intervento?
Ecco, probabilmente la risposta a questa domanda non è scontata e forse (e per l’appunto) non politicamente corretta. Certo, devo ammettere che per la mia particolare posizione (dato che come avvocato assisto oramai da molti anni sindacati e operatori economici del settore taxi) forse non posso reputarmi totalmente imparziale. Ciononostante ritengo che il settore abbia rappresentato (e stia rappresentando) una sorta di testa di ponte per il legislatore (anche sull’onda di segnalazioni dell’Autorità Antitrust e ora dell’Autorità dei trasporti) nell’ottica dello scopo finale della completa liberalizzazione dei mercati. In altre parole, se un Governo e/o un Parlamento dimostrano di essere in grado intervenire sui taxi, allora si può essere in grado di intervenire su tutto.

Negli ultimi due anni, inoltre, il panorama del settore è stato reso più complesso dall’ingresso sul mercato di nuovi player. Nuovi operatori sicuramente più strutturati sotto il profilo economico rispetto alle realtà economiche locali e nazionali – in particolare rappresentate da forme societarie di tipo cooperativo o consortile – che vi operavano e vi operano. Mi riferisco ovviamente alle società o gruppi societari che hanno introdotto in Italia nuove forme (reali o sedicenti tali) di sharing mobility: ossia l’applicazione al settore della mobilità di approcci propri della c.d. sharing economy. Alcune di tali nuove forme di mobilità condivisa si pongono come alternativa agli attuali servizi taxi e NCC e (dopo le ordinanze del Tribunale di Milano sul caso UBER POP della scorsa primavera estate possiamo affermarlo con certezza) in taluni casi in piena concorrenza con gli stessi.

L’impatto delle nuove forme di sharing mobility sul settore del trasporto pubblico locale non è di poco momento. Secondo uno studio condotto nel 2014 dalla società Roland Berger Strategy Consultants, i maggiori servizi di sharing mobility registrano tassi di crescita annui compresi tra il 20% e il 35%, con previsioni di fatturato trai 2 e i 6 miliardi di dollari per il 2020.

Tuttavia, astraendoci per un attimo dalle problematiche sociali che si sono verificate, su di un piano strettamente giuridico, l’inserimento di tali nuovi player sul mercato ha costituito l’occasione per riaprire un dibattito (mai realmente chiuso) sulla legislazione taxi. In particolare, è stata parzialmente spostata l’ottica che lo aveva segnato: dall’ormai usuale AUT AUT liberalizzazione sì, liberalizzazione no; si è passati a vagliare l’adeguatezza stessa dell’attuale legislazione rispetto a quelle che sono ritenute le evoluzione del mercato.

In altri termini – ed è qui la seconda domanda – di fronte ad un mercato che offre servizi analoghi a quelli che già venivano resi, ma realmente o apparentemente nuovi, le leggi vigenti (e già collaudate) sono sufficienti alla loro disciplina e regolazione oppure serve un rinnovamento? E, di qui, un ulteriore quesito: è il mercato che si deve adattare alle leggi o le leggi alle realtà che il mercato introduce.

Per affrontare, nonché per fornire le giuste linee guida allo scopo di consentire di affrontare la problematica anche nelle successive tavole rotonde, occorre operare una serie di precisazioni in ordine alle competenze legislative nel settore.

A seguito della c.d. direttiva Bolkestein (n. 2006/123/CE) e soprattutto delle due note sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del febbraio 2014 è stato definitivamente chiarito che:
(i) la competenza legislativa nel settore taxi-NCC appartiene esclusivamente agli Stati Membri e non all’Unione Europea (si tratta infatti di un trasporto di tipo meramente locale);
(ii) non sussiste alcun obbligo di liberalizzazione da parte dei singoli Stati Membri.

Lo Stato Italiano – scusandomi per il gioco di parole – è, dunque, l’unico player che può normare il settore.

Per quanto riguarda il piano interno, invece, dopo la modifica del Titolo V della Costituzione risalente al 2001 la competenza legislativa sul settore appartiene in primo luogo alle Regioni. Parlamento e Governo centrali mantengono esclusivamente una possibilità di intervento nell’esercizio di competenze trasversali in materia di concorrenza e livelli dei servizi.

L’attuale quadro legislativo si compone dunque di:
(i) una legge quadro nazionale (n. 21/1992) che ha resistito all’impatto della modifica costituzionale del 2001 proprio grazie alla sussistenza di una competenza generale statale in materia di concorrenza e livelli minimi dei servizi; legge modificata da ultimo nel 2008 attraverso l’introduzione di diverse disposizioni specifiche finalizzate a contrastare il fenomeno dell’abusivismo settoriale;
(ii) singole leggi regionali per lo più costruite sulla falsa riga della legge quadro statale.
Tale quadro è stato sottoposto sia al vaglio della Corte di Giustizia, sia di numerosi Tar e del Consiglio di Stato i quali – dopo una serie di dubbi inizialmente sollevati – lo hanno ritenuto conforme sia al diritto comunitario, sia alla nostra Carta Costituzionale.

Pertanto, nonostante quello che – da più voci – si sente comunemente affermare il quadro legislativo italiano in materia di TPL non di linea risulta essere in vigore; è stato considerato – dalla giurisprudenza – legittimo sotto il profilo costituzionale e comunitario; e – con un ultimo intervento di modifica posto in essere a livello statale che risale a non più di sette anni fa ed entrato in vigore da poco più di cinque anni – può considerarsi anche sufficientemente aggiornato.

Se così è, appare difficile poter rispondere alle domande sopra poste nel senso che la legislazione attuale è inadeguata a disciplinare il settore e che, pertanto, il mercato può muoversi in un regime (eufemisticamente parlando) di indifferenza rispetto alla legge. In altre parole, sempre sotto un profilo prettamente giuridico, è possibile affermare che – almeno in una prima fase – deve essere il mercato ad adattarsi alla legislazione e non il contrario.

Il recente contenzioso dinanzi al Tribunale delle imprese di Milano sul caso UBER-POP ha rappresentato la controprova della correttezza di questo approccio. Da un lato, infatti, vi erano le istanze di un nuovo player del mercato che affermava la legittimità del servizio offerto, in quanto trattavasi di un servizio nuovo (peraltro – sempre secondo l’impostazione utilizzata dal Gruppo UBER nel caso di specie – nemmeno formalmente di trasporto, ma di semplice servizio informatico di messa in contatto di utenti con operatori privati che offrivano passaggi automobilistici a pagamento) e come tale non disciplinato da alcuna legge vigente (ivi inclusa quella sul TPL non di linea) e perciò stesso consentito.

Dall’altro, vi erano le istanze degli operatori taxi titolari di licenza che invece affermavano la completezza della legislazione di settore e, quindi, la concorrenza sleale generata nei loro confronti dal servizio UBER-POP fondata (principalmente) sul mancato rispetto dell’obbligo di licenza per fornire servizi di trasporto non di linea a pagamento rivolti ad un pubblico indifferenziato. Sappiamo tutti quelle che sono state le decisioni del Tribunale meneghino.

A questo punto chiarito che le nuove forme di sharing mobility non possono prescindere dalla legislazione vigente (e anzi possono tranquillamente conviverci); e che prima viene la legislazione e poi il mercato e non viceversa, la vera domanda che ritengo debba essere alla base delle successive tavole rotonde è la seguente:
fermo quanto sopra, è comunque necessario – oggi – pensare di cambiare la legge nazionale in materia di TPL non di linea per adattarla ulteriormente all’utilizzo delle nuove tecnologie? È in caso affermativo, in quale direzione?

Lasciando ai successivi relatori la risposta, quello che mi sento di poter tranquillamente affermare è che la legge n. 21/1992 (e la legislazione sul TPL non di linea in generale ivi includendo anche quelle delle singole Regioni), come ogni legge non è di certo perfetta, ma sicuramente perfettibile ed eventualmente adattabile – ove ritenuto necessario – al cambiamento dei tempi.

L’errore commesso in passato è stato invece (e probabilmente) quello di voler – sì – intervenire in tale direzione, ma con interventi c.d. spot, e soprattutto mediante l’utilizzo dello strumento legislativo sbagliato: ossia la decretazione d’urgenza. Infatti, assodata – come visto – l’assenza di qualsiasi sostanziale ragione di urgenza (che oltretutto avrebbe sottoposto perciò solo tali norme ad un rischio di incostituzionalità), l’utilizzo di un decreto legge non consentiva per il suo necessitato ridotto – temporalmente parlando – approfondimento (ex ante dal Governo ed ex post dal Parlamento) la giusta possibilità di contemperare le diverse istanze provenienti dal mercato; e di ragionare sulle strade normative da intraprendere per disegnare i nuovi modelli di disciplina.

Oltretutto, l’utilizzo della decretazione d’urgenza ha fatto aumentare l’impatto sociale negativo delle proposte nuove norme. Infatti, l’immagine che appariva era quella di interventi inspiegabilmente punitivi che conducevano a forme di protesta sociale che hanno inevitabilmente spostato il focus del problema dalla realtà giuridica alla realtà sociale, comportando la necessità di un passo indietro attraverso la sterilizzazione operata da emendamenti introdotti nelle leggi di conversione delle modifiche originariamente previste nei decreti governativi.

Anche per le forti tensioni sociali che il settore ha dimostrato di far emergere, la probabile soluzione alla questione, dunque, non può non fisiologicamente transitare da una forma più ragionata di legislazione, per così dire di confronto. In altri termini, se il legislatore dovesse ritenere i tempi maturi per una rivisitazione generale della disciplina di settore, quest’ultima non può essere formulata unilateralmente dall’alto; bensì deve nascere da un confronto dal basso tra soggetti istituzionali, parti sociali e operatori economici.

Un tentativo in tal senso era stato invero ottimamente avviato dalla Autorità dei Trasporti. Tuttavia, il lodevole proposito iniziale è sfociato – forse troppo rapidamente – in una segnalazione a Governo e Parlamento dello scorso maggio che ha approcciato e tentato di risolvere solo parzialmente i problemi del settore, venendo così rigettata dal settore stesso apparendo piuttosto come una modalità transeunte di sanatoria di alcune delle nuove forme di esercizio dei servizi di TPL non di linea che i Tribunali avevano – giusto pochi giorni prima – considerato contra legem.

Di qui pertanto la necessità – e sempre ove sia ritenuta sussistere la necessità – di avviare un nuovo confronto su quelle che – come sono state definite in questo stesso forum – sono le nuove sfide legislative del mondo del TPL non di linea.

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Un commento

  1. Temo che molti lettori di TaxiStory, vedendo la lunghezza di questo articolo, si siano scoraggiati temendo fosse scritto in termini complessi, tipici dell’ambiente forense: niente di tutto questo! L’avvocato Giustiniani dello Studio Pavia & Ansaldo (che da tempo esercita tutela legale per la categoria) ha riassunto fluentemente “lo strano caso” che il comparto taxi rappresenta in ambienti politici ed economici, come determinate forzature provenienti dagli stessi ambienti costituiscano un pretesto per condizionare l’opinione pubblica e per favorire interessi paralleli di soggetti privati, che seguono strategie difformi dalla legislazione vigente.

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