espresso.repubblica.it Un Parlamento per amico. Le carte segrete di Uber mostrano quanto possa essere facile, per una multinazionale con fatturati miliardari, agganciare autorevoli politici italiani e far approvare leggi su misura dei propri interessi privati. Con norme tanto favorevoli da rovesciare i risultati dei processi in corso nei più importanti tribunali italiani. E tanto premeditate da ispirare contratti milionari ancora prima di entrare in vigore.
Gli Uber Files sono oltre 124 mila documenti riservati del colosso californiano dei trasporti, ottenuti dal quotidiano inglese The Guardian e condivisi con l’International consortium of investigative journalists (Icij), di cui fa parte L’Espresso. La fuga di notizie comprende circa 83 mila email dei manager di Uber, che rivelano quattro anni di manovre su politici, ministri e funzionari in decine di Stati, per bloccare indagini, modificare leggi e stroncare la concorrenza dei taxi. In Italia, le carte arrivano fino al 2016, quando si dimette Mark MacGann, il capo dei lobbisti di Uber, ora diventato fonte dell’inchiesta giornalistica e grande accusatore dell’azienda: «Abbiamo venduto menzogne ai governi giocando con la vita della gente».
Dall’Europa all’Asia, dall’Africa all’Australia, Uber, in quegli anni, ha approfittato dell’incapacità degli Stati nazionali di controllare le piattaforme di Internet. In Italia, come in molti altri Paesi, il mercato dei taxi è regolato come servizio pubblico. Per fare il tassista serve una costosa licenza delle autorità e il prezzo delle corse è prefissato dalla legge con tariffe minime e massime. Uber è sbarcata in Italia nel 2013 senza chiedere licenze o autorizzazioni, come i suoi stessi manager ammettono di aver fatto in tutto il mondo: «Siamo dannatamente illegali», ma è «meglio chiedere il perdono che il permesso».
Tra il 2015 e il 2017 i tribunali italiani, a partire da due sentenze-modello di Milano e Torino, hanno dichiarato illegale Uber Pop, il servizio più diffuso e redditizio, che faceva una smaccata concorrenza ai taxi fingendo di utilizzare «driver» occasionali, interessati solo a dividere la spesa di un singolo percorso. Gli avvocati dei tassisti hanno invece dimostrato che erano autisti professionisti, che lavoravano a tempo pieno con la piattaforma di Uber, ma come precari licenziabili in ogni momento. Quindi i giudici hanno vietato quella «concorrenza sleale» ai tassisti. A quel punto la multinazionale ha organizzato una capillare campagna di lobby per reclutare politici italiani di ogni livello, dai Comuni alle Regioni, dal Parlamento al governo.
Negli Uber Files c’è una tabella del 2015 con i nomi di oltre 90 esponenti di quasi tutti i partiti, che sono stati avvicinati e contattati, spesso più volte. I lobbisti riferiscono le posizioni di ciascuno, aggiornate dopo ogni tornata di incontri: «Pronto a sostenerci». «Molto favorevole a Uber». «Da sempre schierato con noi». «Ci può aiutare, ma non vuole apparire, per non inimicarsi i tassisti». Accanto ai parlamentari, nelle liste dei tifosi della multinazionale compaiono tecnici, giuristi, economisti, consiglieri di Stato e capi di gabinetto dei ministeri.
espresso.repubblica.it Dopo le prime sentenze negative dei tribunali, i lobbisti concentrano l’assalto sul governo, per cambiare la legge. «Italy – Operation Renzi» è il nome in codice della più importante campagna di lobby organizzata per agganciare e condizionare l’allora presidente del Consiglio e alcuni ministri e parlamentari a lui più vicini, che allora dominavano il Pd. L’obiettivo è far inserire nella legge sulla concorrenza, allora in cantiere, un emendamento ad hoc, per legalizzare Uber. L’operazione fallisce quando Renzi inizia a perdere consensi.
Nel marzo 2016 la riforma viene accantonata e i manager lo accusano di aver «tradito le promesse» e «fottuto Uber». «Mettetelo direttamente sulle spalle di Renzi», scrive MacGann ai suoi dirigenti: «Primo ministro, ti eri impegnato personalmente a riformare le regole dei trasporti in Italia: perché adesso ti pieghi alle minacce?».
Gli ultimi documenti disponibili mostrano che i lobbisti, nella seconda metà del 2016, ripiegano su un obiettivo minore, già perseguito in varie città: abolire quella che loro chiamano «garage rule», la regola del garage. Il discorso riguarda gli autisti privati con un’autorizzazione pubblica di noleggio con conducente (Ncc). Possono trasportare clienti per una singola trasferta e contrattare il prezzo senza limiti legali, ma devono partire e tornare nella loro autorimessa, senza potersi fermare a raccogliere altri passeggeri. In quei mesi, in pratica, la multinazionale usa la sua piattaforma alternativa, Uber Black, per arruolare, da Milano a Roma, finti Ncc, che in realtà fanno i tassisti a tempo pieno, come si legge nelle sentenze. Nel novembre 2016 un folto gruppo di sindacati e consorzi di taxi hanno presentato un ricorso collettivo d’urgenza contro Uber, per concorrenza sleale, al tribunale civile di Roma. In dicembre l’atto viene notificato alla multinazionale, che si costituisce nel gennaio 2017. Nei giorni successivi, due parlamentari del Pd inseriscono un emendamento a sorpresa nella legge «Mille proroghe», varata a fine anno per rinviare tutti i termini in scadenza.
Il testo, firmato dai senatori Linda Lanzillotta e Roberto Cociancich, ha una formulazione incomprensibile per i non addetti ai lavori: «Al comma 3 aggiungere il seguente periodo: “Conseguentemente, la sospensione dell’efficacia disposta dall’articolo 7-bis, comma 1, del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2009, n. 33, si intende prorogata fino al 31 dicembre 2017″». Il significato di queste parole, che nel febbraio 2017 diventano legge, viene chiarito dal tribunale di Roma, che il 26 maggio, rovesciando i verdetti precedenti, decreta la prima, trionfale vittoria di Uber contro i tassisti. Consapevoli della portata della decisione, i giudici trascrivono l’intero emendamento, evidenziando che si tratta di «una nuova norma approvata nel corso del presente giudizio», che «sospende» due regole chiave che fino ad allora limitavano l’attività degli Ncc: il «divieto di stazionamento sul suolo pubblico» e «l’obbligo di inizio e fine di ogni servizio presso la rimessa». Addio regola del garage, insomma: almeno per il 2017, Uber Black è diventata legale.Cociancich, senatore del Pd dal 2013 al 2018, è un fedelissimo di Renzi, di cui era stato capo istruttore negli scout. Avvocato riservato ed esperto, è stato l’artefice di norme vincenti come l’emendamento «canguro», che sbloccò la riforma costituzionale (poi bocciata al referendum), e la legge a favore di armatori italiani come Vincenzo Onorato, di cui si parla nelle intercettazioni della Procura di Firenze sulla fondazione Open. La stessa legge è finita al centro dell’inchiesta di Milano sui soldi versati da Onorato alla società privata di Beppe Grillo mentre il fondatore dei Cinquestelle chiedeva ai suoi parlamentari di appoggiarla. L’avvocato e senatore è citato negli Uber Files solo come possibile invitato, insieme a Lanzillotta, a un forum economico sponsorizzato dalla multinazionale. I lobbisti non avevano bisogno di lui per arrivare a Renzi, definito «un entusiastico supporter di Uber». Cociancich è tuttora il responsabile di Italia Viva a Milano. Il suo nome compare nell’enciclopedia Treccani alla voce «ultra-renziano».
Lanzillotta, invece, brilla di luce propria anche negli Uber Files, dove è registrato l’intero suo curriculum dell’epoca: vicepresidente in carica del Senato, docente universitaria, ex ministra e dirigente ministeriale, dal 2013 parlamentare di Scelta Civica, poi rientrata nel Pd con il governo Renzi.
I lobbisti annotano tutte le tappe della manovra per agganciarla, dalla prima stretta di mano («Hand shaking moment») ai contatti riservati per discutere le norme a favore di Uber. In un rapporto del 2016 sui «politici nazionali disposti a sostenere i nostri testi di legge», i manager scrivono che «la senatrice Lanzillotta ci ha detto di avere già preparato gli emendamenti da presentare sugli Ncc e sui rider». Lo stesso dossier di Uber elenca altri cinque parlamentari «che assicurano di poter inserire norme» e «sono chiaramente a nostro favore», indicandone uno per partito, in questo ordine: Pd, Forza Italia, Autonomie, Nuovo centro-destra, Lega.
Gli Uber Files si fermano alla crisi del governo Renzi. Da allora la lobby continua, ma resta segreta. Dopo l’emendamento del 2017, il cantiere delle riforme riparte con il governo gialloverde: Lega e Cinquestelle approvano una legge-quadro sui taxi, che prevede di regolare anche l’attività di Uber, ma con successivi decreti attuativi, che poi non vengono più emanati. Negli ultimi anni la multinazionale sembra aver svoltato a destra. Negli Uber Files i leader dei tassisti romani erano ancora schedati come «nemici», «collegati al centro-destra», e i loro sindacati firmavano i ricorsi legali. Tra il 2020 e il 2021, quando i giudici di Milano commissariano Uber Italy con l’accusa-shock di sfruttamento criminale del lavoro dei rider, il quadro cambia: la multinazionale, attraverso la sua associazione di categoria Assodelivery, firma un accordo decisivo con un solo sindacato di destra, Ugl, per convincere il tribunale che d’ora in poi rispetterà i diritti minimi dei fattorini che consegnano pasti in bicicletta.
L’ultima svolta è di queste settimane. Mentre infuriavano le proteste dei tassisti contro il «comma Uber» del 2022, inserito nel disegno di legge sulla concorrenza varato dal governo Draghi, la multinazionale ha annunciato un’alleanza senza precedenti con il consorzio Uriservice, che riunisce migliaia di tassisti di Roma e altre città ed è guidato dagli ex «nemici». Le clausole più importanti sono segrete. L’Espresso ha potuto esaminarne una bozza finale, che svela le cifre: a Uber spetta una «commissione di servizio» tra il 5,5 e l’8,5 per cento, in base al numero di corse. Alla sua piattaforma vengono collegati, tramite la società inglese Splyt che incassa lo 0,5 per cento, migliaia di tassisti in più di trenta città: 3.500 a Roma, 1.500 a Torino, 1.400 a Milano, 700 a Genova, 500 a Napoli, 380 a Firenze, 245 a Trieste.
Secondo gli esperti consultati da L’Espresso, l’accordo è la traduzione letterale di un contratto-tipo di stampo americano che Uber ha adattato senza curarsi troppo delle norme in vigore in Italia. Se il taxi è un servizio pubblico, ad esempio, come si giustifica un contratto segreto? Se c’è una tariffa massima visibile sul tassametro, perché il passeggero dovrebbe pagare la commissione a Uber, da dividere con Uriservice? Gli esperti evidenziano diverse clausole «ambigue», «incerte», «non in linea con le attuali norme italiane» e concludono: evidentemente la multinazionale era sicura che sarebbe passato il «comma Uber». Ora invece ritirato a furor di taxi.
Grazie a Associazione Tutela Taxi per il testo
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