lastampa.it Pasquale Di Francesco, Lino il tassista, aggredito da tre giovani il 23 giugno scorso e deceduto mesi dopo a 63 anni – a metà ottobre – nella residenza Anni Azzurri di Santena dopo essere entrato in coma irreversibile, è morto per le botte. Il dato, fin qui intuibile per logica, ha adesso una certificazione scientifico-giuridica. Nei giorni scorsi il dottor Alessandro Marchesi, medico legale e consulente del pm Alessandra Provazza, ha messo su nero su bianco che esiste un nesso causale tra «l’ultima aggressione » subita dal tassista di Moncalieri e «l’emorragia subdurale che lo ha portato alla morte».
«Si può affermare la compatibilità tra i due eventi traumatici» ha spiegato il professionista aprendo di fatto la strada a una modifica (probabile, ma al momento non ancora formalizzata) del titolo di reato per i tre giovani fin qui indagati. Ad oggi la procura contesta la rapina e la morte come conseguenza di altro reato. Che a questo punto potrebbe diventare omicidio preterintenzionale per la cui contestazione ricorrono i presupposti delle lesioni.
Era stato il figlio della vittima, Enrico, a spiegare i motivi delle due aggressioni subite dal papà pestato di botte da tre persone la notte tra il 22 e il 23 giugno nei pressi della stazione metro del grattacielo della Regione (ci sono tre indagati) e deceduto a distanza di quattro mesi in cui è entrato in ospedale tre volte e per altrettante dimesso prima dell’ultimo – disperato – intervento chirurgico per assorbire «un ematoma subdurale cranico».
«Quella sera papà mi chiamò dall’ospedale. Mi ha raccontato – ha detto il ragazzo – che aveva incontrato un cliente abituale che lo aveva sempre pagato, ma che in quell’occasione era su di giri e lo aveva aggredito chiedendogli addirittura dei soldi. Insieme a lui c’era una donna che papà aveva già visto più volte e ospitato sul taxi: si sa che i clienti non si scelgono. Quello di papà era un lavoro così, ma lui lo viveva bene e non vedeva l’ora di tornare sul suo taxi». Il racconto era proseguito: «Mio papà non ha dato soldi a nessuno e a fronte del suo rifiuto gli hanno strappato la collana dal collo e i due sono scappati: so che lui ha fatto di tutto per ritrovarla».
Lino avrebbe girato nelle ore successive bar e “Compro oro” della zona per cercare di rientrare in possesso del ricordo, senza riuscirvi. Aggiunge il figlio: «So che il giorno dopo la rapina papà ha incontrato di nuovo la ragazza, questa volta in compagnia di un altro uomo. Ha chiesto loro indietro la collanina ed è lì che è stata aggredito pesantemente da questo ragazzo con pugni e calci anche alla testa». Il legale che assiste i figli della vittima, Davide Neboli (coadiuvato dall’avvocatessa Sabrina La Corte) interpellato da La Stampa, dice adesso che «seguiamo in silenzio e con rispetto il lavoro della magistratura, nell’attesa che si accerti la verità e che si stabilisca cosi giustizia quantomeno per la vittima».
Nulla di rilevante penalmente è invece emerso nella relazione del professionista su eventuali responsabilità mediche nei mesi trascorsi dall’aggressione alla morte: un fronte che era stato aperto con discrezione per far luce su un percorso di cure durato molto tempo e costellato da quattro ricoveri.