laregione.ch A distruggere il business dei taxi a Zurigo sono stati Uber prima e la pandemia dopo: è questo il giudizio unanime di un gruppo di tassisti che hanno acconsentito a parlare della loro difficile situazione lavorativa, con entrate in continuo calo e nessuna prospettiva di miglioramento per il futuro.
Rita
Incontriamo Rita nel Kreis 4, cuore pulsante della città, dove, non senza sacrifici, ha cresciuto la figlia ormai trentenne. Poiché ha 64 anni compiuti, è già in pensione, ma continuerà a lavorare, visto che per gran parte della vita è stata libera professionista e i risparmi del secondo pilastro non bastano. Rita si è formata come infermiera geriatrica, ma ha abbandonato la professione quasi subito per un lavoro in banca, nella numismatica, e in seguito per entrare nell’impresa di taxi del padre. Già cinque anni dopo Rita rileva la ditta, che nel frattempo si è specializzata nel trasporto di allievi di scuole speciali, per esempio ragazzi autistici o affetti da trisomia 21. Per arrotondare, dal 2002 Rita fa anche la tassista generica, il che equivale a trascorrere lunghe attese, che possono durare anche ore, negli appositi parcheggi della città, per i quali paga una tassa d’utilizzo. Adesso che è in pensione vorrebbe smettere con quest’ultima attività, che va di male in peggio. Rita racconta che prima della pandemia a Zurigo c’erano circa 1400 tassisti, oggi stima che ne siano rimasti più o meno 1000. Il business è dominato per lo più dagli stranieri, che con i taxi trovano (o meglio: trovavano) più facilità a inserirsi nel mondo del lavoro.
Anna-Marie
Anche Anna-Marie, coetanea di Rita, che incontriamo in un caffè molto frequentato di Kreuzplatz, racconta che negli ultimi tempi è diventato difficile fare più di due o tre corse al giorno. Dopo essere stata tassista indipendente presso una centrale (per una quota mensile di mille franchi), anche lei da alcuni anni è entrata nel business del trasporto allievi, in grado di fornirle un minimo di sicurezza finanziaria. Anna-Marie racconta che da quando è arrivato Uber i guadagni sono diminuiti del 20%-30% di giorno e del 40% di notte, quando in giro ci sono soprattutto giovani. Anche i trasporti pubblici, nettamente migliorati rispetto al passato, rappresentano una forte concorrenza. Lei stessa avrebbe potuto lavorare per le linee di trasporto zurighesi, ma ha rinunciato per non perdere la sua indipendenza. Come sottolinea anche Rita, l’aspetto più bello di questa professione è infatti la libertà: si può lavorare quando si vuole e si conoscono le persone più diverse e interessanti. Alcuni in mezz’ora raccontano la storia della propria vita, altri hanno appena concluso un buon affare e lasciano laute mance. E poi ci sono i clienti fissi, quelli con cui si sviluppano rapporti profondi, come quella signora anziana dei quartieri bene che Rita accompagnava regolarmente dal parrucchiere, alla quale faceva la spesa, pettinandole perfino i capelli, e che una volta le ha regalato due scatole di cioccolatini Sprüngli con una banconota da mille franchi infilata in mezzo. Purtroppo non sa che fine abbia fatto, immagina che ora sia ricoverata in una casa per anziani: sul giornale non ha mai visto l’annuncio di morte.
Da giovane Anna-Marie lavorava di notte, ma solo di rado le è capitato di essere molestata. Nel 1982 è stata però coinvolta in un avvenimento finito sui giornali: un cliente, furioso perché lei non aveva accettato di prendere un caffè con lui, spara dapprima agli pneumatici (senza successo) e poi a un signore che passava di lì per caso, ferendolo gravemente. L’uomo viene arrestato e condannato a ventisette mesi di prigione e a cinque anni di allontanamento dalla Svizzera (era di origine siciliana). La cosa più strana della faccenda è che Anna-Marie si è accorta di ciò che era successo solo a posteriori, leggendo il giornale, e in seguito scoprendo i segni dei proiettili sull’auto. Fra le varie avventure vissute, cita anche l’episodio del drogato che un giorno cerca di derubarla minacciandola con un martello. Lei allora abbassa il finestrino, chiede aiuto e lo fa scappare. Poco dopo lo vede per strada e prontamente chiama la polizia. Alcuni giorni dopo viene a sapere che il tizio aveva cercato di derubare anche un ristorante. Tra gli episodi buffi vi è invece quello della donna che una notte riaccompagna a casa e che è tanto ubriaca da inciampare in giardino e rimanere distesa a terra, incapace di rialzarsi. Poiché non riesce a risollevarla, anche in questo caso deve ricorrere alla polizia, che la trasporta letteralmente di peso dentro casa.
Yassin
Mentre aspetta l’arrivo di clienti, Yassin, 45 anni, ci invita nella sua auto parcheggiata nella Bahnhofstrasse e conferma che fare il tassista è un mestiere pieno di sorprese: un giorno non si fa nemmeno una corsa e il giorno dopo si ha un colpo di fortuna e si trova una cliente che da Zurigo vuole andare fino a Pontremoli, una manager della Barilla che il giorno dopo aveva un meeting importante e che per la trasferta era disposta a sborsare ben 2’800 franchi. Certo, non tutte le esperienza sono positive: a Yassin è già capitato di portare un paziente in clinica psichiatrica che all’arrivo si dilegua, di rimanere bloccato nel palazzo di una cliente che invece di pagarlo voleva “usarlo” per far sloggiare dall’appartamento il fidanzato molesto o di caricare passeggeri che poi si sentono male proprio dentro la sua auto. Yassin, di professione magazziniere e nel business dei taxi dal 1998, racconta che fino al 2005-2007 gli affari sono andati bene, poi è arrivato Uber. È molto arrabbiato e scoraggiato. Durante la pandemia ha provato a cambiare lavoro, ma la cosa non ha funzionato. Secondo lui quella di Uber è concorrenza sleale: i tassisti devono attenersi alle tariffe ufficiali, mentre Uber può deciderle in tutta libertà, cambiandole in base alla domanda. Per questo in media Uber costa il 30% in meno.
Secondo Yassin Uber è come un parrucchiere che, invece di avere un salone, prende una sedia e si mette a tagliare i capelli per strada. Non ha comunque perso del tutto la speranza e si augura che la sentenza emessa lo scorso marzo dal Tribunale federale – la quale sancisce che gli autisti Uber svolgono un’attività lucrativa dipendente e hanno dunque diritto all’AVS – riporti un po’ d’ordine in Svizzera. Purtroppo a Ginevra l’obbligo introdotto l’anno scorso per Uber di lavorare con ditte intermediarie che assumono in pianta stabile gli autisti non ha risolto il problema, visto che alcuni di questi intermediari sono stati accusati di sfruttamento, portando il Canton Ginevra a sospendere la collaborazione con uno di essi, che ha fatto ricorso.
Ahmet
Ahmet, di origine turca e in Svizzera da quarant’anni, è così amareggiato che quasi non vuole parlare e non ci invita nella sua auto. Lo incontriamo all’aperto, in una giornata soleggiata ma ventosa e fredda. Lavora come tassista da dieci anni, da quando la sua vecchia impresa – la Speisewagengesellschaft attiva nella ristorazione su rotaie – l’ha licenziato a causa di una ristrutturazione. Sta per andare in pensione e non ce l’ha solo con Uber, ma anche con le autorità, che tre o quattro anni fa hanno alzato le tariffe – attualmente comprese tra un minimo di 3.80 e un massimo 5.00 franchi a chilometro – e che in questo modo hanno letteralmente spianato la strada alla sharing economy.
Se Ahmet è fortunato, perché può contare su un secondo pilastro, per molti altri colleghi, come Yassin racconta, la realtà è invece molto dura, visto che difficilmente un tassista riesce a guadagnare più di 3500 franchi lordi al mese. Oltre alla concorrenza di Uber, c’è infatti anche quella degli autisti regionali, che quando portano clienti in città si fermano a caricarne di nuovi, anche se in realtà la legge non lo consentirebbe. Rita conferma: non tutti i tassisti si attengono alle regole e non tutti sono corretti. Ci sono quelli che allungano i percorsi, quelli che, nonostante la piombatura, riescono a far andare più velocemente i tassametri e quelli che lavorano in nero dichiarando solo una parte dei guadagni.
Secondo lei al giorno d’oggi manca inoltre il senso del servizio: non si aprono più le porte, non si caricano più le valigie nel bagagliaio, non si aiuta più chi ha problemi di mobilità. Molti, come sottolinea Anna-Marie, rifiutano inoltre le corse brevi, perché rendono poco o nulla.
Bruno
Una storia simile la racconta Bruno, 59 anni, originario del Camerun e in Svizzera da vent’anni, che un giorno ha fatto la felicità di una signora: con la figlia doveva recarsi all’ospedale pediatrico ed era già stata rifiutata da due tassisti perché il tragitto secondo loro era troppo corto. Bruno, dal sorriso contagioso e dai modi pacati ed eleganti, per arrotondare si occupa anche della manutenzione di campi da tennis. In passato ha lavorato nella stampa dei tessuti, ma dopo dieci anni non ce la faceva più a stare in un ambiente chiuso e ha iniziato a lavorare part-time con il taxi. Come Rita, anche lui conferma: in passato tra i tassisti c’era una bella atmosfera, si rideva e scherzava, oggi invece c’è molta frustrazione e si finisce per litigare per un nonnulla. Dice che il business è morto e che da quel che può vedere anche altre professioni stanno morendo: oggi ci si aspetta che i clienti facciano il lavoro del personale, come alle casse self-service dei supermercati. Scherza aggiungendo che un giorno per andare in vacanza ci faranno pilotare anche l’aereo.
Bruno è comunque contento della sua vita in Svizzera. Anche se di tanto in tanto deve subire qualche commento razzista, non è nulla rispetto ai vantaggi di cui gode qui. Se potesse tornare indietro rifarebbe la stessa scelta. I giovani emigrano dall’Africa perché nei loro paesi non hanno prospettive. In Camerun per esempio di lavoro ce n’è, tanto, ma manca il salario. Si viene impiegati con facilità, ma poi a fine mese il capo si dilegua e si resta con un pugno di mosche in mano. Ai ragazzi giovani che incontra, magari appena arrivati nel nostro paese e traumatizzati, Bruno ripete sempre che bisogna adattarsi, essere forti. Proprio ciò che devono fare anche i tassisti, quelli rimasti.