corriere.it Cittadini e turisti che vi recate a Roma sappiate che non è quantificabile il tempo di attesa del taxi alla stazione Termini, se invece vi dovete spostare all’interno della città calcolate con anticipo la possibilità di muovervi a piedi o con altri mezzi, perché spesso la risposta è: «Non abbiamo taxi disponibili». Anche a Milano prendere un taxi in tempi accettabili non è affatto scontato. Il motivo per cui nelle grandi città milioni di persone attendono inutilmente è noto: i taxi sono troppo pochi. Le leggi per aumentare il numero di licenze ci sono tutte, ma appena i Comuni provano a mettere mano alla questione per i tassisti è di fatto sempre un «no», e bloccano la città con gli scioperi (qui il Dataroom del marzo 2024). L’alternativa sono gli Ncc, cioè i servizi di noleggio con conducente, quelli che comunemente chiamiamo tramite la piattaforma Uber.
La confederazione «Muoversi», che raggruppa le principali associazioni di settore (AniTrav, Comitato Air, Sistema Trasporti, Asincc) ne stima fra i 25 e i 30 mila. Secondo i numeri ufficiali, invece, sarebbero solo 5.179, ma semplicemente perché i Comuni che devono rilasciare le autorizzazioni non hanno comunicato i dati all’Autorità di Regolazione dei Trasporti. La disciplina della loro attività è in ballo da 16 anni: fin dal 2008 il centrodestra, in particolare la Lega, interviene per mettere paletti all’attività degli Ncc al fine di limitare la concorrenza ai taxi, e con norme anacronistiche visto lo sviluppo delle piattaforme digitali; ma pure il centrosinistra quand’era al governo non ha mai risolto la questione. Nel frattempo le nuove autorizzazioni di Ncc sono ferme (a Roma addirittura dal 1993): per sbloccarle dev’essere funzionante il «Registro informatico sui titolari di licenza per i taxi e di autorizzazione per il noleggio con conducente» che monitora chi fa cosa. Il Registro è stato previsto nel 2018 (qui art. 10 bis), e istituito nel 2020 (qui), ma al momento non è ancora attivo. Nell’inettitudine della politica prolifera l’abusivismo. E oggi la situazione è quella che andiamo a descrivere.
Chi li guida e con quali regole
Sia per i taxi sia per gli Ncc l’autista è titolare di un’impresa artigiana, dunque con partita Iva, e iscritto alla Camera di Commercio dopo avere superato l’esame per ottenere il «ruolo di conducente» (qui art. 6). A concedere la licenza o l’autorizzazione è il Comune (qui art. 5). La differenza è che i taxi sono un servizio pubblico, e quindi sono obbligati a fare i turni per coprire h24 tutti i giorni dell’anno, devono essere capillari sul territorio e avere tariffe concordate con i Comuni per essere quanto più possibile accessibili economicamente.
Gli Ncc invece non sono un servizio pubblico, e dunque non devono rispettare tutte queste regole. Mentre i taxi si possono trovare anche nei parcheggi dedicati, la caratteristica degli Ncc è che vanno prenotati chiamandoli sul cellulare (i numeri si trovano online), su siti dedicati oppure tramite app. L’unica piattaforma digitale presente oggi in Italia per prenotarli è Uber, che è partita con Milano e Roma nel 2013 e oggi è presente complessivamente in 13 città (Torino, Milano, Verona, Venezia, Treviso, Udine, Trieste, Bologna, Firenze, Roma, Palermo, Catania più l’aeroporto di Monfalcone), prevalentemente in quelle dove ci sono più autorizzazioni per le auto con conducente. Il prezzo della corsa lo decide un algoritmo sulla base del giorno, dell’ora, della disponibilità di auto, e viene anticipato al momento della prenotazione.
Lo «scudo fiscale» olandese di Uber
Uber l’ha inventata l’americano Travis Kalanick e oggi l’80% è di proprietà di fondi previdenziali e assicurativi Usa come Vanguard Group (8%), BlackRock (7%), Eaton Vance Management (5,9%), Fidelity (5,9%) e JpMorgan Investment (4%). La capogruppo ha sede in Delaware (Usa) ed è quotata in Borsa a New York. Nel 2023 ha fatturato 37,2 miliardi chiudendo per la prima volta in utile: 1,88 miliardi di dollari. La società italiana è Uber Italy che ha ricavi da pochi milioni e solo per servizi di marketing a favore di una controllante olandese, la Uber International. Attenzione, qui sta il nodo che spiega il modello finanziario, ovvero come bypassare le autorità fiscali locali: per il business vero (noleggio e trasporto) gli incassi da tutto il mondo volano direttamente in Olanda, dove c’è una rete di finanziarie locali (compresa quella che controlla Uber Italy) che fa capo a una società chiave seppure sconosciuta, la «Uber NL Holdings 1 b.v.» (Uber NL). Ha zero dipendenti, ma 16,8 miliardi di fatturato 2023: infatti arrivano qui i ricavi operativi da oltre 230 società del pianeta, tranne Usa e Cina. Il fatturato l’abbiamo calcolato desumendolo dal bilancio della casa madre americana Uber Technologies che, nonostante il ruolo strategico della controllata olandese, non le dedica spazio, ma suddivide i ricavi semplicemente per area geografica. C’è un’altra evidente anomalia: l’ultimo bilancio depositato di Uber NL è quello del 2021, approvato solo nell’agosto 2023 e certificato dall’audit di Pwc nello stesso mese, ovvero un anno e otto mesi dopo la sua chiusura. Non è chiaro come la capogruppo americana abbia potuto chiudere i bilanci consolidati 2021 e 2022, con i tempi stretti dettati dalla quotazione in Borsa, quando non era ancora stato approvato e certificato dai revisori il consuntivo di una controllata così importante. Chi comanda sulle società di comodo basate ad Amsterdam? La filiale di Uber a Singapore in un gioco di prestiti finanziari e scatole cinesi che con l’assistenza dell’Olanda permette a Uber di non pagare tasse là dove offre i suoi servizi.
In Italia Uber trattiene il 25% del costo di una corsa, mentre il 75% (commissione standard) va al conducente sottoposto al regime fiscale italiano delle partite Iva. È piuttosto difficile evadere perché i pagamenti sono tracciati: al cliente è richiesto il saldo della corsa con la carta di credito o altri mezzi elettronici come PayPal all’atto della prenotazione.
Il ritorno alla rimessa e il foglio di servizio
La legge quadro che regola la materia è come per i taxi la n.21 del 1992 (qui), e per gli Ncc stabilisce che l’utente faccia la sua richiesta alla sede operativa della ditta noleggiatrice (rimessa) (qui art. 3). Nel 2008 (governo Berlusconi IV) le norme prevedono che l’inizio e il termine di ogni singolo servizio di noleggio con conducente debbano avvenire alla rimessa, situata nel Comune che ha rilasciato l’autorizzazione, e che debba essere compilato un foglio di servizio con i termini della corsa: a) targa del veicolo; b) nome del conducente; c) data, luogo e chilometri di partenza e arrivo; d) orario di inizio servizio, destinazione e orario di fine servizio; e) dati del cliente (punto da sempre dolente per motivi di privacy). Dieci provvedimenti legislativi successivi prorogano però di anno in anno l’entrata in vigore della norma al 31 dicembre 2017 (qui art. 9 comma 3). La attua invece il governo M5S-Lega con il decreto-legge del 14 dicembre 2018, (qui, art. 10 bis): l’utente può prenotare l’Ncc anche mediante piattaforma digitale, ma l’autista deve sempre partire dalla rimessa e farvi ritorno per prendere la successiva prenotazione. Ribadito l’obbligo di compilazione del foglio di servizio in formato elettronico da parte del conducente.
Norme irragionevoli
Le norme di fatto sono rimaste inapplicate e la Corte Costituzionale ritiene sproporzionato e irragionevole l’obbligo di rientro in sede al termine di ogni corsa (qui 5.6.3 e qui), bocciato anche dall’Autorità di regolamentazione dei Trasporti (qui pag. 5). Ora i ministri Matteo Salvini (Trasporti) e Adolfo Urso (alle Imprese e Made in Italy) ci riprovano: «In caso di richieste di servizi Ncc riferite al primo orario di partenza disponibile, il vettore indica un orario di prelievo dell’utente compatibile con i tempi di trasferimento dalla rimessa o, in caso di partenza da un luogo diverso dalla rimessa, non inferiore a 30 minuti». Le norme, contenute in 3 diversi decreti e che devono superare l’esame del Garante della privacy e dell’Antitrust, nascono di fatto già vecchie. Scrive la Commissione europea «L’obbligo di ritornare a una sede remota senza passeggero, per poi rifare il percorso al contrario per prelevare il passeggero successivo, aumenta il numero delle corse a vuoto (note col termine inglese «deadhead»). In tempi caratterizzati da città congestionate, dalla necessità di mitigare l’impatto ambientale e dalla disponibilità di sistemi di comunicazione mobile e geolocalizzazione, potrebbe essere opportuno rivedere questa regola. Fintanto che i conducenti sono impegnati, non si dovrebbe impedire loro di svolgere il proprio servizio imponendo l’obbligo di rientro in sede tra un cliente e l’altro. Le città potrebbero, per esempio, designare spazi nelle zone più centrali dove i conducenti possono aspettare nelle pause tra le corse, con l’obiettivo di ridurre il più possibile le corse a vuoto che rappresentano un uso inefficiente dell’orario di lavoro e sono dannose per l’ambiente, in quanto contribuiscono all’aumento della congestione e delle emissioni» (qui). Sono indicazioni di semplice buon senso che la politica ha il dovere di applicare. In un mondo che cambia e dove c’è lavoro per tutti, proprio perché la domanda cresce, perseverare nella tutela di interessi di categoria è diabolico.