di Claudio Giudici, in risposta all’Istituto Bruno Leoni
9 novembre 2014 (MoviSol) – I processi di liberalizzazione avviatisi dal 1992 ad oggi in Italia hanno raggiunto due puntuali (o, se si parte dalla premessa liberista, paradossali) obiettivi, contrari a quanto in facciata auspicato dai loro apologeti, ma in linea con quanto la tradizione liberista ha nella storia saputo produrre: il consolidarsi di ristretti oligopoli e l’aumento dei prezzi dei prodotti e servizi liberalizzati. In Italia la cosa ha riguardato gli agenti di borsa – attività liberalizzata per consentire, alla faccia della sbandierata concorrenza, ad un ristretto gruppo di banche di controllare tutto il settore delle transazioni finanziarie – , il commercio – attività liberalizzata per aprire maggiormente la vendita al dettaglio alle grandi catene commerciali, così che oggi, ancora alla faccia della sbandierata concorrenza, esse controllino l’80% del settore – , e i vari settori delle ex Partecipazioni Statali (banche d’interesse nazionale, assicurazioni, telefonia, energia, distribuzione idrica, autostrade, aeroporti e stazioni ferroviarie, ecc.) che hanno, anche qui, consentito il semplice trasferimento di questi asset dalla mano pubblica a ristretti oligopoli (o addirittura monopoli) privati.
Così, al di là di ogni spudorata lettura liberista, liberalizzazioni e privatizzazioni sono semplicemente servite a trasferire ad una ristretta oligarchia interi settori economici che in passato erano o parcellizzati tra una moltitudine di piccoli operatori, o in mano pubblica (per approfondimenti a riguardo rimetto questo studio che sviluppai nel 2008: “La distruzione dello Stato Sociale attraverso la catastrofe delle liberalizzazioni-privatizzazioni in Italia”).
Circa i vantaggi per i consumatori, nessuno o marginali! Non abbiamo certo assistito ad una riduzione dei prezzi finali per gli utenti, come ricostruisce la Cgia di Mestre in due diverse analisi da cui si evince: 1) che la stragrande maggioranza dei settori liberalizzati abbia avuto aumenti di costo anche fino a quattro volte la parallela crescita del tasso di inflazione (vedi) e, 2) che un servizio a tariffa amministrata come il servizio taxi sia stato il servizio che meno è cresciuto dal 2003 ad oggi rispetto a tutti gli altri servizi liberalizzati (vedi).
Invero, un’eccezione vi sarebbe, e sarebbe quella della telefonia, che solitamente gli apologeti delle liberalizzazioni citano come dimostrazione della bontà delle stesse, trascurando che trattasi appunto di un’eccezione. Ma in realtà anche qui una spiegazione vi è: questo settore è stato caratterizzato nell’ultimo decennio da una rivoluzione tecnologica senza precedenti e senza pari se confrontato con gli altri settori. In passato la comunicazione passava dal cavo telefonico, oggi gran parte della stessa passa dai satelliti; in passato un telefono serviva appunto per telefonare, oggi è principalmente un trasmettitore di dati (sms, mail, immagini, hotspot, ecc.). Ed infatti, il vero fattore in grado di far scendere i prezzi è proprio questo: lo sviluppo tecnologico. E questo passa necessariamente per quegli investimenti infrastrutturali ed in ricerca che nel mondo occidentale, tutto banche universali e rigorismo finanziario, appunto, si fanno, in misura sempre più limitata (comparazione che deve essere fatta in proporzione al pil prodotto).
Fatta questa premessa di contesto, al di là di ogni approccio ideologico, la vera domanda da farsi è se vi sia bisogno di rivoluzionare il settore taxi italiano. E se guardiamo in modo obiettivo alla sua efficienza, sia in termini di qualità che di prezzo, la risposta è no.
Il mai troppo famoso rapporto degli Automobilclub europei, Eurotest 2011 (vedi), pone il servizio taxi italiano tra i più economici di Europa; in merito alla qualità del servizio, sempre quel test pone il servizio taxi milanese al quarto posto in Europa su 22 città analizzate. Non ha raggiunto lo stesso risultato Roma, che però merita un inciso. Dei quasi 8000 taxi costituenti la flotta romana, circa 2000 non aderiscono a nessuna delle cooperative radiotaxi; sono proprio queste ultime che rappresentano il vero plus del servizio taxi italiano. Non è un caso che il 3570 di Roma, oltre ad essere la più grande compagnia taxi d’Europa sia una delle più all’avanguardia al mondo, già oggetto di studio da parte di delegazioni statunitensi, cinesi e non solo.
Ma la vera qualità del servizio taxi italiano è rappresentata dalla capillarità del servizio sul territorio, che consente di registrare tempi di attesa del taxi che per oltre il 90% dei casi sono inferiori ai 5 minuti nonostante la carenza di corsie preferenziali e la nota pessima infrastrutturazione delle città italiane. Recentemente, nella mia qualità di presidente del 4390 Taxi Firenze, il Sindaco Nardella mi ha sollecitato una particolare presenza di servizio taxi per la manifestazione della Leopolda. Nonostante la sfortunata ubicazione della stazione Leopolda, nonostante il via libera dato dalla Polizia municipale alle vetture private a poter circolare sulla corsia preferenziale utile per poter arrivare alla manifestazione, nonostante una città totalmente cantierizzata per la realizzazione delle due nuove linee della tramvia, la capacità di soddisfazione dell’attesa degli utenti è stata per l’85,5% delle chiamate inferiore ai 5 minuti.
Alla luce di tutto ciò, non si comprendono le ragioni di uno stravolgimento di un qualcosa che funziona, se non inquadrandole nel processo sopra descritto: consentire l’apertura dell’ottimo servizio taxi italiano a soggetti espressione di una precisa oligarchia internazionale a cui oramai mancano veramente pochi asset dell’economia reale su cui non siano riusciti a mettere le mani. Ed Uber, l’app finanziata da colossi come Goldman Sachs (e BlackRock attraverso Google), è la più manifesta rappresentazione di questo tentativo. Fra l’altro un servizio dalle tariffe più alte mediamente del 60% rispetto al servizio taxi (confermato anche da questo test indipendente) che di fatto non può garantire un efficiente servizio di pubblico interesse come il trasporto persone, poiché poggia su un’infrastruttura insufficiente com’è quella di una semplice app. Chi ne esalta l’efficienza, o non sa di cosa parla o non l’ha mai usata veramente, poiché un’app è efficiente nei limiti della disponibilità delle linee 4G o 3G (la cui presenza è tutt’altro che costante) ma non certo in quelle inferiori. L’assenza di un’infrastruttura telefonica di base, rende un servizio che poggi su una mera app, un qualcosa di completamente aleatorio.
È dunque quanto meno pretestuosa la recente analisi del think tank liberista, Istituto Bruno Leoni, prodotto da Paolo Belardinelli (scarica il PDF), nel momento in cui pretenderebbe di eliminare il contingentamento dei taxi tramite licenza. Primo, perché il contingentamento dei taxi non è un’anomalia italiana ma una costante europea e più in generale di tutti i paesi industrializzati, e secondo perché non è certo trasformando le licenze in autorizzazioni che si superi tale peculiarità, in quanto anche il servizio del noleggio con conducente (sottoposto, come rileva Belardinelli, ad autorizzazione) è contingentato. E la ragione del contingentamento, differentemente da quanto sostenuto da questa analisi dell’I.B.L., è quella di garantire la sostenibilità economica dell’attività da un lato e la tutela del fruitore del servizio dall’altro. Circa quest’ultimo, esso necessita, trattandosi di un servizio di pubblico interesse, di esser garantito dall’obbligo di servizio (sia per la copertura temporale che per quella spaziale) che deve essere h24 e su tutto il territorio comunale e non solo quando e dove la profittabilità suggerirebbe. Di recente anche l’Autorità per la concorrenza ed il mercato, come acriticamente citata da Belardinelli, avrebbe richiesto un’equiparazione tra servizio taxi e servizio di noleggio con conducente. Ma come si può seriamente proporre cose di questo genere quando il servizio taxi ha l’obbligo di essere presente tutto il giorno e di effettuare la prestazione richiesta a prescindere dalla meta di destinazione nel comune licenziatario, dunque non potendo ispirare la propria attività ai criteri di massima profittabilità propri del libero mercato, mentre l’altro servizio a tali obblighi non sia sottoposto? Cosa farebbe l’Autorità con la sua proposta se non porre le basi per una odiosa istituzionalizzazione di una concorrenza sleale a favore di un servizio contro un altro? Ed a tali obblighi il servizio taxi è sottoposto imponendogli un costo di erogazione che non possa essere rimesso all’arbitrio dell’offerente, che sarebbe facilmente ipotizzabile nel momento in cui si consideri che il servizio è caratterizzato da immediatezza (tempi ridotti per l’utente per la valutazione di eventuali alternative) e non ripetibilità della prestazione (il servizio acquistato non è mai il medesimo in quanto, seppur per stesse tratte, non sono mai le stesse le condizioni di traffico), caratteristiche che rendono difficili o impossibili eventuali comparazioni.
Il problema è che, chiarissimo Claudio Giudici, le tue parole piene di buonsenso non risuoneranno di certo nei timpani dei pescecani che amministrano questo povero Paese.
Queste parole non devono risuonare nelle orecchie dei pescecani ma nelle nostre,