Il caso #ubergate (questo l’ ashtag diffuso sui social network) si allarga e in tutto il mondo si rincorrono tra i vari media, articoli che mettono in luce piena “l’altra faccia” di Uber. Sembra che l’astro nascente di Uber si stia eclissando dietro una serie di avvenimenti e dichiarazioni da brivido, così come la incalzante fase di innamoramento dei giornali sembra si stia trasformando in un atto di accusa. Il quotidiano Repubblica di oggi ha pubblicato un articolo che non concede sconti, buona lettura.
SAN FRANCISCO – Rapimenti, violenze sessuali, clienti aggrediti e malmenati, dipendenti che si fingono utenti per sbaragliare la concorrenza, fondi neri, sorveglianza elettronica dei movimenti dei passeggeri, intimidazioni nei confronti dei dipendenti della concorrenza e minacce ai giornalisti. Sembra una pagina presa dalla storia delle Whiskey War statunitensi della seconda metà dell’ottocento, quando le gang di New York trasformarono Brooklyn in un campo di battaglia, ma si tratta invece delle Cab War (la Guerra dei Tassisti) in corso negli Usa. E Uber, il colosso della shared economy statunitense che ha messo a soqquadro il mondo del trasporto privato cittadino, fa la parte del gorilla.
Che Uber fosse un “go getter” – un competitore aggressivo – era un fatto risaputo. Per prendere di petto l’industria dei taxi in America, occorrono legioni di avvocati e capitali sostanziosi da investire in spese legali, ma anche il coraggio di resistere a vere aggressioni da parte di autisti delle varie compagnie, che non di rado sono state accusate di colludere con i mobster – come vengono definiti in gergo i mafiosi. Ma in pochi si aspettavano che Uber avrebbe combattuto a questo livello, adottando tattiche che ricordano periodi storici nei quali le gang criminali affliggevano gli Usa. E tante sono le accuse in genere mosse agli startupper, ma mai finora di essere dei gangster. Almeno fino all’arrivo della compagnia fondata da Garrett Camp and Travis Kalanick.
Lanciata nel 2010 a San Francisco, in meno di 4 anni la compagnia dei due starupper ha raggiunto una valutazione di mercato di quasi 19 miliardi di dollari e correntemente opera in oltre 200 città sparse in 45 paesi. Ma con il successo e l’esplosione dei profitti – si parla di guadagni nell’ordine del miliardo di dollari l’anno – sono arrivati anche i dolori di crescita aziendale. Prima con le accuse di concorrenza sleale da parte di altri servizi di trasporto crowdsourcing come Lyft e Sidecar, i cui autisti riferiscono alternativamente o di minacce o di offerte di premi di ingaggio per cambiare azienda da parte di dipendenti di Uber travestiti da passeggeri. Poi con le rimostranze dei passeggeri che, da New York a Los Angeles, e arrivando alla stessa San Francisco, stanno lamentando un numero crescente di abusi, anche fisici, da parte degli autisti.
Denunce di violenze sessuali -nei confronti soprattutto delle viaggiatrici–sembrano essere ormai all’ordine del giorno. Quelle più recenti sono avvenute a New York, a Los Angeles, Orlando, Chicago e Alexandria. La trama sembra essere sempre la stessa: la viaggiatrice è giovane, a volte leggermente inebriata. In più di un caso gli autisti offrono un tour gratuito della città, concluso con la molestia. A Washington, di recente, un autista di Uber è stato protagonista di un rapimento con tanto di gimkana nel traffico e inseguimento poliziesco. Da San Francisco infine arrivano storie di passeggeri aggrediti a martellate e di scazzottate durante le corse mentre altri passeggeri hanno riportato di esser stati praticamente tirati fuori dalla macchina per i capelli.
E gli abusi nei confronti dei passeggeri non si limitano solo al livello fisico, sforano anche nell’universo digitale come ha avuto modo di verificare una ragazza australiana appena uscita da un centro per il trattamento dei tumori che aveva avuto l’ardire di cancellare la sua prenotazione. Il suo telefonino è stato bombardato di messaggi offensivi dell’autista, che tra l’altro le ha detto “ti meriti quello che ti è capitato”.
E a fare spionaggio elettronico non sono solo gli autisti. I dirigenti dell’azienda hanno addiritttura sviluppato un software che hanno chiamato sintomaticamente “God View”, sguardo divino, per controllare gli spostamenti dei loro clienti e delle macchine. Utilizzato teoricamente solo dai dirigenti per questioni interne aziendali della massima importanza, l’esitenza di God View è stata rivelata per caso da Josh Mohrer, manager della piazza di New York, a Johan Bhuiyan, una giornalista di BuzzFeed che lo doveva intervistare. Mohrer, stanco d’aspettarla, aveva fatto ricorso a God View – lo chiamano così perché offre una vista dall’alto degli spostamenti di un telefono sul quale è stata installata l’app di Uber – per capire com’è che stesse arrivando in ritardo. “Finalmente sei arrivata, è da un po’ di tempo che seguivo i tuoi spostamenti sulla nostra App”, ha sbottato Mohrer quando ha visto la Bhuiyan, incurante del fatto che la giornalista ignorava di esssere monitorata e che non gli aveva dato alcun permesso. La scoperta ha ovviamente suscitato reazioni molto forti, spingendo il senatore Al Franken a scirvere una lettera cheidendo speigazioni ai dirigenti di Uber. “Le nostre norme aziendali sono chiare al riguardo, l’accesso ai dati e il loro uso è concesso solo ai dirigenti aziendali che abbiano delle ottime ragioni”, ha fatto sapere un portavoce dell’azienda, smentito immediatamente da due dipendenti che infatti hanno confermato che God View è accessibile da tutti gli addetti dell’azienda.
L’elenco delle rimostranze nei confronti del trasporto crowdsourcing sta diventando così lungo che di recente C/net, uno dei maggiori media dell’informazione tecnologica Usa, si domandava se fosse sicuro o meno usare Uber, concludendo che il passeggero si assume un grosso rischio quando usa il servizio senza possibilità di ricorso nei confronti della compagnia. “I passeggeri non sanno in cosa si stanno cacciando quando scaricano la app di Uber e chiamano una delle sue macchine”, ha dichiarato l’avvocato Chris Dolan dello studio legale Dolan Lawfirm, che sta rappresentando la famiglia di una bambina di sei anni investita ed uccisa da una macchina di Uber, “Gli stanno dando carta bianca”.
Secondo Dolan i termini d’uso del servizio sono cosi ampi che assolvono la compagnia da qualsiasi responsabilità civile e penale in caso di incidente e di ferite e le permettono di evitare qualsivoglia responsabiltà per le azioni dei suoi autisti anche in caso di decesso del passeggero. “Stupro, omicidio: la compagnia può lavarsene le mani senza nessun timore”, aggiunge Dolan.
Ma non si tratta solo di semplici disfunzioni del sistema di assunzioni e di abuso di strumenti elettronici. Secondo PandoDaily, un seguitissimo blog tecnologico di Silicon Valley, si tratta di una vera e propria cultura aziendale. Una cultura secondo la quale lanciare una campagna di sabotaggio nei confronti di altri siti ridesharing è normale. Ed è quello che sta per l’appunto accadendo dall’agosto scorso, quando i media hanno scoperto che Uber ha organizzato un gruppo di 177 clienti fantasma, che muniti di svariate carte di credito e telefoni cellulari sono incaricati di chiamare macchine della concorrenza per poi cancellare la prenotazione pochi minuti prima che queste arrivino all’indirizzo che gli è stato fornito, impegnando così gli autisti della competizione a vuoto e spingendo i consumatori che usano il ridesharing a rivolgersi a Uber, che nel settore dispone del maggior numero di autisti. Smascherati dai giornalisti, i dirigenti di Uber piuttosto che scusarsi e rinunciare alla campagna hanno rimarcato che la tecnica è forse troppo aggressiva e che hanno chiesto ai loro team di ridurla al minimo, aggiungendo poi che c’è comunque poco da lamentarsi visto che Uber paga la penale per le cancellazioni.
Impudente anche la reazione alle rivelazioni della stampa secondo cui per ridurre il suo carico fiscale Uber ha organizzato una struttura proprietaria simile a quelle delle scatole cinesi. In tale maniera maschera i suoi guadagni in un labirinto di sussidiarie ed affiliate con sedi sparse in tutto il mondo, riuscendo così a esportare capitali nei paradisi fiscali olandesi e delle Bermuda. Uber sostiene che queste soluzioni sono del tutto legali, ignorando ovviamente il fatto che gran parte del suo successo è dovuto alla facilitazioni fiscali di cui godono le aziende statunitensi del web e al fatto che il comune di San Francisco offre una riduzione sostanziosa delle imposizioni sui salari e sulle tasse immobiliari alle aziende hi-tech che come Uber, decidono di stabilire la propria sede in città.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso, e che sta scatenando una vera rivolta nei confronti di Uber fino al lancio di una campagna nazionale per la cancellazione dell’applicazione, è arrivata però a metà novembre a New York dove, durante una cena organizzata per migliorare i rapporti con la stampa, il vicepresidente di Uber Emil Michael ha suggerito che l’azienda avrebbe dovuto spendere un milione di dollari per assumere dei ricercatori (leggi investigatori) che indagassero quelli che lui ha definito i giornalisti sleazy, squallidi, per tirare fuori un po’ del loro fango. In altri termini Micahel annunciava l’intenzione di investire un milione di dollari per intimidire i giornalisti che stanno criticando l’azienda. In particolare, Sarah Lacey fondatrice di PandoDaily che di recente – visti i casi di agressioni a sfondo sessuale nei confronti delle donne–aveva accusato Uber di sessismo e misoginia. Dopo che in Francia l’azienda si è associata a un servizio di escort femminili, ha aggiunto Lacey, lei aveva deciso di cancellare la app di Uber.
“Quanti segnali dobbiamo ancora ricevere per concludere che l’azienda non rispetta e non assegna nessun valore alla nostra sicurezza?”, aveva scritto Lacey, cancellando immediatamente la app. Questo aveva spinto Michael a suggerire che i “ricercatori” assunti da Uber avrebbero scavato nella vita privata dei giornalisti e delle loro famiglie (Lacey e i suoi in questo caso) e una volta scoperto qualcosa di discutibile lo avrebbero reso immediatamente di dominio pubblico.
“La si dovrebbe ritenere personalmente responsabile di tutte le donne che seguendo il suo suggerimento cancelleranno la nosta app e finiranno coll’essere assalite sessualmente dagli autisti di altre compagnie di taxi”, aveva rimarcato con rabbia Michael, salvo poi fare marcia indietro – sostenendo che s’era trattato di uno sfogo – dopo la prevedibile tempesta mediatica scaturita dalle sue dichiarazioni. Anche Aston Kutcher, che di Uber è investitore e che era corso immediatamente a difendere l’azienda ( “che c’è di male ad investigare i giornalisti?” aveva scritto), ha dovuto fare immeditamente marcia indietro. C’è infatti il rischio che non si trattasse solo di una boutade ma che si stesse parlando di sviluppi futuri. Del resto l’incontro, al quale partecipavano anche esponenti di rilievo della nuova informazione come Arianna Huffington e attori come Ed Norton, era stato organizzato da Ian Osbourne, ex assistente del primo ministro inglese David Cameron, e lo stesso Michael è da agosto consulente del Pentagono.
Nulla di nuovo sotto il sole! Questi sono i metodi delle Multinazionali, di cosa ci stupiamo? Cosa dobbiamo aspettarci di buono da una nazione nata dal genocidio dei nativi americani? Che sbarchino in Europa con mazzi di fiori e cioccolatini?
la stampa si ribella ma la tv con ballaro invita la sig Bal in trasmissione…giannini forse temendo l occhio di DIO permette le solite bugie alla signora promettendole un prossimo invito….
Vorrei segnalare questo sito ed il filmato http://www.whosdrivingyou.org/
no all’imperialismo americano, dopo i taxi attaccheranno anche il mondo delle consegne a domicilio , dei trasporti etc.
Purtroppo siamo proprio noi che stiamo insegnando a U… a fare il nostro mestiere, e U… impara molto rapidamente, soprattutto dagli errori che noi e un pò tutto il mondo, giorno dopo giorno, andiamo a rinfacciarle… Quello che invece proprio non sappèiamo o non vogliamo fare, è di imparare da U… il valore sostanziale che la sta lanciando sul mercato, alla faccia di tutti gli errori: IL TAXI PIU’ VICINO – UN NUMERO UNICO DI CHIAMATA per l’intero parco taxi disponibile in piazza! Con i nostri circa 3.000 taxi in movimento, con un costo al tassista di meno di un quinto dell’attuale canone radiotaxi,non avremmo certo il problema di qualche centinaio di macchine U…