ilgiornale.it La fila dei taxi davanti al piazzale della stazione di Roma Termini è il ritratto lampante di un Italia che si è fermata. Immobile. Inerme. Svuotata delle sue forze. Ancora non arresa, ma cosciente di essersi trovata a combattere una guerra con un nemico invisibile. Il Coronavirus. Anche nella Capitale, ormai da quasi un mese, i turisti sono scappati. Cancellate le prenotazioni negli hotel. Svuotati i vagoni dei treni. Dimezzati i voli aerei per cui la richiesta è ridotta all’osso. Le strade deserte incutono paura. Il traffico “maledetto” in fondo rendeva così vive le città di uno dei paesi più visitati al mondo.
“È un disastro. Siamo disperati”. Marco è il primo tra i suoi colleghi nella fila chilometrica che costeggia il marciapiede davanti all’ingresso della stazione. Tra un’ora finisce il suo turno e la prossima, “se ci sarà”, sarebbe la terza ed ultima corsa del giorno. “Il lavoro è diminuito del 90%. Stiamo fermi qua davanti per ore. Non c’è nessuno.”
La situazione è drammatica e per ogni lavoratore sorridente che cerca di sdrammatizzare crogiolandosi sulle note del detto “mal comune mezzo gaudio”, ce ne è un’altro che guardando nel vuoto si abbandona alla preoccupazione. “Ho la licenza da pagare, un mutuo, due figli a casa…come faccio? Qui se non si lavora non si mangia.” Racconta Antonio, mentre pulisce con l’alcol il volante della sua auto spenta da troppi minuti.
Il Comune di Roma, cosciente del calo in picchiata degli incassi per i tassisti ha deciso il blocco di 1500 vetture romane. “Ci fermiamo a rotazione…Ma il Comune ha tolto 1500 macchine su quasi 8mila…Capite che non serve?” Chiara è arrabbiata. Quando le parliamo di “soluzioni” scuote la testa. Non serve. Non basta. É troppo poco. Ci vogliono misure che aiutino economicamente chi non riesce più a portare a casa neanche i soldi per pagare le bollette.
“Il governo deve bloccare i pagamenti. É necessario. Altrimenti andiamo tutti nel muro.” Potessero lo griderebbero in coro i tassisti, questa mattina. Ogni giorno che passa cresce la preoccupazione. In piedi sull’asfalto, appoggiati con la schiena alle macchine ferme in attesa di una chiamata che qualche giorno fa avrebbero dovuto rifiutare, i padri di famiglia, non riescono a parlare d’altro. Il virus. Il deserto. La paura. Il dramma.
Nessun antidoto alla tristezza che possa servire ad alleviare il malumore davanti al motore spento di un auto che può solo attendere che le cose cambino. “Speriamo” dice Franco. Ed è l’unica parola di ottimismo che riusciamo a percepire tra le auto bianche in fila indiana.