it.businessinsider.com Uber perde soldi a bocca di barile, ma nell’euforia generale che contraddistingue Wall Street continua a essere valutata più di mille dollari a cliente attivo: a fronte dei 55milioni di utilizzatori del secondo trimestre dell’anno, la capitalizzazione della società è scesa a 60 miliardi di dollari. Un anno fa, quando la pandemia da Coronavirus non era neppure un ipotesi, Uber valeva circa 90 miliardi di dollari e trasportava poco più di 90 milioni di passeggeri. Insomma, la proporzione – al netto della crisi – è rimasta invariata.
Proprio come le perdite: negli ultimi tre mesi la società ha registrato un rosso di 1,8 miliardi di dollari. Portando il “buco” complessivo a oltre 25 miliardi di dollari dalla sua fondazione. A preoccupare gli analisti sono ormai diversi aspetti, ma il primo riguarda le economie di scala: sia che i passeggeri siano molti, sia che siano pochi, la corse restano in perdita. Anche dopo che la società – a inizio 2020 – ha annunciato mille licenziamenti e lo stop alle promozioni. “L’era della crescita a tutti i costi è finita” aveva detto l’ad Dara Khosrowshahi, ma il trend non è cambiato.
Il secondo aspetto a preoccupare il mercato riguarda il contenzioso legale in California. Lo Stato americano accusa Uber e la rivale Lyft di “furto salariale”, per aver negato ai propri dipendenti i benefici dovuti continuando a inquadrarli come lavoratori indipendenti anziché dipendenti. La California è convinta che sia stata violata la legge nazionale che impone di riconoscere ai lavoratori della gig economy, inclusi gli autisti delle due società, gli stessi benefit dei dipendenti. Se Uber e Lyft perdessero la causa dovrebbero pagare ai loro autisti gli straordinari, la copertura sanitaria e altri benefit.
Per gli analisti di Barclays, un giudizio favorevole alla California potrebbe mandare in bancarotta Uber. D’altra parte secondo la banca d’affari, solo nello Stato californiano, la riclassificazione dei conducenti come dipendenti potrebbe costare alle due società 3.625 dollari l’anno per autista, per un costo complessivo di circa 290 milioni di dollari. E calcolando che la commissione di Uber si aggira intorno al 25%, gli analisti immaginano che il margine verrebbe azzerato da “salari più altri, previdenza sociale, medicare, nonché eventuali benefit per i dipendenti”.
Insomma, Uber rimane una rosa piena di spine. A inizio anno, la società aveva indicato come obiettivo il raggiungimento della marginalità positiva per il 2020; il Covid ha spostato di 12 mesi il traguardo, ma i dubbi rimangono anche perché la modalità del business non permette – se non in maniera ridotta – di sfruttare le economie di scala: all’aumentare dei clienti crescono i costi. E il modello di Uber non ricalca in nulla quello di Facebook e Amazon che dopo aver investito miliardi di dollari per conquistare clienti e quote di mercato sono riuscite a diventare immediatamente profittevoli. Peggio, la corsa delle consegne a domicilio – raddoppiate nell’ultimo trimestre – non è stata sufficiente ad arginare le perdite del corse business. Con un aumento del 103% a 1,2 miliardi di dollari, per la prima volta, le consegne a domicilio hanno generato più ricavi delle corse in auto, ma nonostante tutto – escludendo i costi per la quotazione – le perdite sono aumentate del 20% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.