panorama.it Che il Signor Rossi e la Signora Bianchi siano arrabbiati a sapere che i Signor “Amazon”, “Netflix”, “Meta” (e tutte le grandi imprese digitali) paghino il 3% di tasse a Roma, mentre loro versano al fisco fino al 43%, non può stupire. Perché i giganti del web pagano meno? Dal 2024 quel 3% passerà al 15%, ma ci sono voluti anni ed è comunque un’imposta che davanti a fatturati miliardari non soddisfa pienamente il Signor Rossi e la Signora Bianchi e le casse italiane.
Nel decreto fiscale collegato alla Manovra 2024 il governo ha inserito l’approvazione della Global Minimum Tax (imposta al 15% sui profitti in Italia dalle multinazionali che fatturano 750 milioni) con un gettito stimato pari a 3 miliardi annui. Partiamo dalla fotografia attuale.
All’interno dell’Unione europea ogni Paese decide la propria politica fiscale e le aziende del settore digitale negli anni si sono sempre spostate dunque verso i Paesi più “generosi” dal punto di vista delle tasse. Nel 2018 iniziò la discussione per avere una web tax comune europea. La Germania si defilò, temendo ripercussioni sulle importazioni dall’Usa di auto tedesche. Il blocco del Nord (Svezia, Danimarca e Finlandia) si mostrò tiepido e si opposero ovviamente Irlanda e Lussemburgo, dove risiedevano visti i vantaggi i big del web (Facebook, Amazon, Google…). Niente accordo. La Francia allora varò la prima web tax nazionale. E poi arrivò l’Italia. La web tax (Digital tax) fu introdotta dal Governo Conte nel 2018 e nel 2020 entrò in vigore il nuovo regime contenuto nella Legge di Bilancio 2020. Si tratta di un’imposta del 3% che si applica sul fatturato di un’azienda (si aggiunge quindi alla tassazione sugli utili che anche le filiali italiane delle multinazionali del web sono tenute a pagare) che ha un ricavo non inferiore a 750 milioni di euro e che incassa in Italia non meno di 5.5 milioni. E si applica sui ricavi derivati dalla fornitura di servizi e riguarda “la pubblicità digitale su siti e social network, l’accesso alle piattaforme digitali, i corrispettivi percepiti dai gestori di tali piattaforme, e anche la trasmissione di dati ‘presi’ dagli utenti” (Agenzia delle Entrate)/. / Quanto è costato tutto questo al fisco italiano? Perdite di milioni di euro, facendo uno storico.
Nel 2018 i 15 giganti del Web Soft con filiali italiane hanno pagato 64 milioni di euro al nostro fisco. A fronte di fatturati miliardari (dati Mediobanca). Due esempi: Google con 15milioni di utili in Italia ne ha versati 4,7 milioni in tasse; Amazon per 11,8 milioni ne ha versati 6milioni. Nel 2019 a fronte di 3,3 miliardi di euro nelle casse statali sono entrati 70 milioni di euro dai grandi giganti del web. Basti pensare che Netflix quell’anno ha pagato 6mila euro di tasse a Roma. E veniamo all’arrivo della web tax all’italiana. Nei primi tre anni (2020-2022) lo Stato ha incassato poco meno di 1 miliardo di euro: 240 milioni nel 2020, 298 milioni nel 2021 e 390 nel 2022 (dati Agenzia delle Entrate). Totale 928 milioni. Risultati deludenti, visto che le previsioni alla vigilia dell’entrata in vigore della web tax erano di oltre il doppio: 2,124 miliardi di euro, 700 milioni l’anno.
Per dare un’idea: mentre dai giganti del web nel 2021 entravano nelle casse del fisco 298 milioni di euro, l’Irpef versata di tanti Signor Rossi e Signora Bianchi (lavoratori dipendenti) faceva entrare 165 miliardi di euro. Uno studio di Mediobanca ha evidenziato che nel 2021 il 30% dell’utile delle 15 maggiori Web Soft mondiali è stato tassato in Paesi a fiscalità agevolata, facendo loro risparmiare 12,4 miliardi di euro. E nel triennio 2019-2021 i quindici colossi sono riusciti a non pagare 36,3 miliardi di euro di tasse dovute all’Italia. Come? Spostando il fatturato delle controllate italiane in Paesi dove le aliquote fiscali erano più agevolate. Elusione, non evasione certo, ma meno entrate nelle casse italiane come risultato.
Da gennaio 2024, dopo anni di confronto, addio alle imposte nazionali sui redditi dell’economia digitale e arriva la Global Minimum Tax, in Europa, Italia compresa. Una riforma fiscale internazionale (l’Italia ha recepito la direttiva Ue nel decreto fiscale collegato alla Manovra 2024) condivisa a livello Ocse e G20. Cosa prevede? La tassazione viene esercitata nel Paese del consumatore e non in quello dove ha sede l’operatore e il prelievo è al 15%. Stop, dunque, alla concorrenza al ribasso delle aliquote d’imposta. E previsioni, per l’Italia, di un gettito di 3 miliardi di euro all’anno.